MINDFULNESS o PREGIUDIZIO?

 In Psicoterapia

Se riuscissimo a guardare ad ogni nuovo fenomeno, accadimento, esperienza con occhi puliti, avremmo la possibilità di vedere con chiarezza le cose. Siamo invece afflitti dai pregiudizi, alla luce di essi leggiamo ciò che accade, e dunque lo distorciamo. Per la legge dell’impermanenza nulla può ripetersi esattamente nello stesso modo. Inevitabilmente sarà diverso, seppure talvolta di poco, ma sarà diverso. Se lo guardiamo dai filtri dei nostri pregiudizi perderemo la possibilità di vedere cosa c’è di nuovo in esso. Dovremmo avvicinarci ad ogni istante della nostra vita con la mente del principiante, ovvero disimparando tutto ciò che già sappiamo o conosciamo, così da aprirci puliti all’esperienza che stiamo vivendo.

Nel rapportarci a noi stessi, nel definrci, restiamo prigionieri dei nostri pregiudizi su noi stessi, dunque poco inclini a registrare e a cogliere i nostri cambiamenti sottili. In terapia individuale talvolta incontro nelle persone molta resistenza a riconoscere i propri cambiamenti, a lasciare andare la precedente visione di sè.

Nelle relazioni troppo spesso ciò che sappiamo dell’altro e dei suoi comportamenti finisce per essere definitivo in noi, e qualunque cosa l’altro faccia (se non troppo apertamente differente) verrà letta con la stessa griglia. In terapia di coppia mi imbatto spesso nella fatica che ciascuno fa a vedere con occhi puliti i nuovi comportamenti dell’altro. Sia in positivo che in negativo. Ad esempio continueremo a lungo a dare credito ad una persona di cui ci fidiamo, a cui attibuiamo ad esempio sincerità, e anche quando ci dirà una bugia tenderemo a pensare che ci stia dicendo la verità. Oppure una persona che conosciamo come aggressiva, qualunque cosa dica o faccia confermerà il giudizio o meglio il pregiudizio che abbiamo formulato su di lei.

Con queste premesse quale cambiamento può essere possibile? O meglio, quanto più faticoso sarà riconoscerlo?

Va però detto che su tante cose basilari e ordinarie della nostra esistenza ciò che sappiamo già é fondamentale ad agire rapidamente nella quotidianità, limitando anche il dispendio energetico. Non dobbiamo infatti prestare molta attenzione quando facciamo cose già apprese, il cervello innesca il pilota automatico e risparmia energia. Ad esempio sappiamo perfettamente come camminare, o recarci al lavoro, o apparecchiare la tavola, o che procedura seguire per pagare una bolletta telefonica ecc.: lo abbiamo già appreso e ripetere queste attività avviene senza particolare attenzione, presenza o consapevolezza.

Leggendo D.J.Siegel (1) sappiamo anche che la sopravvivenza stessa della nostra specie é legata proprio all’apprendimento che porta il nostro cervello a valutazioni rapide che avviano comportamenti atti a sopravvivere. Riconoscere un pericolo tempestivamente significa potersi mettere in salvo. Oppure apprendere un certo comportamento, implica poi poterlo riconoscere velocemente o poterlo ripetere senza grossi sforzi e così via. Le informazioni in arrivo verranno colte dal nostro cervello che cercherà somiglianze e diffrenze con ciò che già conosce e poi trarrà conclusioni e ci porterà ad agire di conseguenza.

Ma se queste modalità di funzionamento automatico riguardano invece questioni esistenziali finiamo per spegnerci, per non sentirci più vivi. Se leggeremo tutto ciò che ci accade alla luce di categorie preesistenti, la vita diventerà routine e noia.

La mindfullness, ovvero la consapevolezza essenziale dell’esperienza, lo sforzo di restare svegli, vivi e consapevoli é la modalità con cui disinneschiamo il pilota automatico e viviamo quell’esperienza così com’è in quel momento, non più determinata dagli apprendimenti precedenti.

Quando ad esempio vediamo un fiore i dati visivi arrivano ai livelli più bassi della neocorteccia (gli strati 5 e 6) e vengono portati verso le aree superiori degli strati corticali (strati 1 e 2), dove alla fine percepiamo il fiore. Ma la corteccia manda anche informazioni di ritorno verso il basso, dagli strati più elevati (1 e 2) verso quelli più bassi (5 e 6). Come se due onde di informazioni si scontrassero nelle zone mediali (strati 3 e 4).

Noi “sappiamo” cos’è un fiore (strati 1 e 2), prima di farne esperienza (strati 5 e 6). Dunque gli strati superiori trasmettono queste informazioni (basate su ciò che abbiamo già in memoria) dall’alto verso il basso, alterando la percezione in entrata dal basso. Il focus dei dati in entrata dal basso verso l’alto é oscurato da quelle che Hawkins e Blakeslee (2) chiamano” rappresentazioni invarianti” cioè le influenze dall’ alto verso il basso (ad es un’immagine invariante della categoria fiori) basate sulla memoria e sugli apprendimenti passati.

Un fiore nuovo potrebbe non essere visto perchè anticipiamo a noi stessi la percezione del vecchio.

D.J.Siegel scrive che “la mindfulness implica la dissoluzione dell’influenza degli apprendimenti precedenti sulle sensazioni presenti”. E’ nell’esperienza mindfulness che quel “é un fiore” può diventare quell’unico fiore, che in realtà esso é.(3)

Dunque ciò che sappiamo sul funzionamento del nostro cervello e dei suoi meccanismi di apprendimento ci può far riflettere sull’importanza assoluta che ha la nostra intenzione di restare presenti e consapevoli nella nostra vita. Allenarsi a non finire nei nostri automatismi mentali che, se talvolta sono utili e necessari, altre volte invece contraggono la nostra possibilità di sentire e vedere anzichè espanderla.

Allora non sempre é bene imparare di più, ma paradossalmente spesso può essere bene portare la nostra mente a disimparare, a saper stare nelle esperienze, liberi da pregiudizi, da tutto ciò che sappiamo già, così che ogni esperienza possa essere vissuta come se fosse la prima.

Non c’è noia nella consapevolezza, né alcuna possibile ripetitività. La mente del principiante non sa, ed é proprio da questo non sapere che diventa possibile conoscere.

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  1. D.J.Siegel In “Mindfulness e cervello” Cortina Editore 2009

  2. J.Hawkins e S. Blakeslee in “On Intelligence” Times Books, New York, 2004

  3. Più romanticamente Antoine De Saint Exupéry fa dire al suo Piccolo Principe: “Gli uomini coltivano 5000 rose nello stesso giardino e non trovano quello che cercano. E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa”.

 

Dott.ssa Giovanna Berengo

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