I DUE LUPI: PRIGIONIA DELLA SOFFERENZA O LIBERTÀ DALLA SOFFERENZA

 In Psicoterapia

Ciascuno di noi è una complessità.

Affermare che siamo questo o quello rischia di etichettarci e di consegnarci definitivamente alle nostre (o altrui) descrizioni. In realtà quando diciamo che siamo timidi piuttosto che insicuri o intelligenti facciamo riferimento soltanto ad una nostra parte. Infatti in talune circostanze viene fuori ad esempio la nostra parte timida (“non so approciarmi a persone nuove”) ma in altre esce quella estroversa (“ieri sera alla cena con i colleghi ho tenuto banco”). A volte ci sentiamo insicuri (“non mi sento in grado di fare un viaggio da solo”) e a volte sicuri (“so argomentare facilmente su temi politici”).

Quando ci impegniamo in una situazione complessa facciamo uso della nostra parte intelligente e seria, ma quando diciamo una serie di sciocchezze con gli amici siamo connessi alla nostra parte stupida e giocosa. Perfino Freud, da finissimo scienziato qual era, si dilettava anche nella lettura dei feuillettons (1).

Di conseguenza abbiamo in noi una molteplicità di tendenze e di attitudini e in noi c’è anche la capacità di coltivarne alcune più di altre. Pur essendo potenzialmente capaci di rubare o di uccidere, la maggior parte di noi coltiva la propria parte etica.

Allo stesso modo proviamo una molteplicità di stati d’animo, tristezza, rabbia, paura, vergogna, e possiamo coltivarli oppure lasciarli andare, e cercare invece di coltivarne altri, l’accettazione, la pace, la serenità.

Se queste considerazioni le portiamo su tutte le nostre propensioni ecco che ci diventa subito chiaro il margine che ciascuno di noi ha di indirizzare la propria esistenza.

Trovo illuminante a questo proposito una bellissima favola indiana che voglio qui riportare:

 

Un vecchio Cherokee seduto davanti al tramonto discorreva con suo nipote.

“Nonno, perché gli uomini combattono?”

Il vecchio, gli occhi rivolti al sole calante, al giorno che stava perdendo la sua battaglia con la notte, parlò con voce calma.

“Ogni uomo, prima o poi, è chiamato a farlo. Per ogni uomo c’è sempre una battaglia che aspetta di essere combattuta, da vincere o da perdere. Perché lo scontro più feroce è quello che avviene fra i due lupi.”

“Quali lupi nonno?”

“Quelli che ogni uomo porta dentro di sé.”

Il bambino non riusciva a capire. Attese che il nonno rompesse l’attimo di silenzio che aveva lasciato cadere fra loro, forse per accendere la sua curiosità. Infine, il vecchio che aveva dentro di sé la saggezza del tempo riprese con il suo tono calmo.

“Ci sono due lupi in ognuno di noi. Uno è cattivo e vive di odio, gelosia, invidia, risentimento, falso orgoglioso, bugie, egoismo.”

Il vecchio fece di nuovo una pausa, questa volta per dargli modo di capire quello che aveva appena detto.

“E l’altro?”

“L’altro è il lupo buono. Vive di pace, amore, speranza, generosità, comprensione, umiltà e fede.”

Il bambino rimase a pensare un istante a quello che il nonno gli aveva appena raccontato. Poi diede voce alla sua curiosità e al suo pensiero.

“E quale lupo vince?”

Il vecchio Cherokee si girò a guardarlo e rispose con occhi puliti.

“Quello che nutri di più.”

 

Quando siamo in difficoltà nella nostra vita possiamo lasciarci andare a seguire quella parte di noi depressa,  o impaurita,  o rabbiosa (che spesso sfocia in pensieri come ad es.: “é un’ingiustizia!”  – “perché proprio a me?”  – “la vita mi é avversa” e così via….)

Se non ci limitiamo ad essere toccati e attraversati da questi stati d’animo, per altro legittimi e comprensibili,  ma cominciamo a coltivarli, permettendo loro di radicarsi nella nostra vita, finiamo per restarne prigionieri.

Poiché il termine “prigioniero” viene dal latino “captivus”, cioè preso, prigioniero (infatti gli animali catturati che vivono negli zoo vivono in cattività), potremmo chiederci: è la vita ad essere captiva con noi o siamo noi captivi con noi stessi?

Quando coltiviamo stati emotivi di dolore o di rabbia, anziché lasciarli andare, siamo captivi con noi stessi, perché restiamo prigionieri di questi stati d’animo.

C’è una sofferenza nella vita di cui tutti noi facciamo esperienza che, seguendo un Sutra del Budda, il Sellena Sutta, potremmo identificare come la prima freccia. C’è poi una sofferenza inutile che deriva da un piano cognitivo perché é data dalla costruzione mentale che noi facciamo sulla sofferenza, e questa é la seconda freccia. È data dal restare prigionieri  nella prima sofferenza, dal non saperla elaborare e lasciare andare,  da cui ci facciamo prendere…..captivare. (2)

Inoltre si potrebbe anche dire che quando siamo prigionieri non solo fisicamente ma anche mentalmente, ad esempio prigionieri di un’idea, di uno schema, dal quale non riusciamo a liberarci, in qualche modo questo ci rende anche cattivi, nel senso di aggressivi, in quanto infelici.

Siamo captivi con noi stessi quando ci facciamo prendere e sedurre da una sofferenza inutile. È questa, un secondo tipo di sofferenza, da cui potremmo diventare capaci di liberarci, imparando a lasciarci toccare dalle esperienze (prima freccia) senza crearvi sopra costruzioni mentali che ci imprigionano in esse (seconda freccia), imparando a coltivare e a nutrire il “lupo buono” che é in noi. Si potrebbe dire  anche che il lupo cattivo è imprigionato nelle proprie costruzioni mentali, mentre il lupo buono é libero da esse.

Quindi quando siamo in difficoltà nella nostra vita abbiamo una possibilità. Talvolta con l’aiuto di un terapeuta, possiamo imparare  a coltivare e a potenziare quelle parti di noi più capaci di affrontare le cose (le nostre risorse), possiamo attivare in noi la resilienza (3),  possiamo recuperare  in noi quella che i buddisti chiamano “salute intrinseca” (4) e che ci pare perduta o addirittura mai conosciuta.

In questo modo la sofferenza sarà un’esperienza che attraversa la nostra vita anziché radicarsi in essa.

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 1. Romanzo popolare in voga nei primi decenni dell’800 che usciva a puntate, rivolto a un pubblico di massa, da alcuni definito una sorta di sottogenere letterario in quanto scritto e pubblicato a scopo commerciale.

 2. Corrado Pensa descrive in questo modo il Sallena Sutta del Budda: “La sofferenza dell’uomo è quindi causata da due frecce: una è quella realmente conficcata nella sua gamba, l’altra è la sua reazione al dolore causato dalla prima. Solo rimuovendo questa seconda freccia si può avere consapevolezza della prima, elaborando il dolore che si prova semplicemente per quello che è.” Nicoletta Cinotti scrive: “Nell’osservare, durante la pratica, quello che mi attraversava, più e più volte mi tornavano in mente le parole del Sallena Sutta: la prima freccia che ci colpisce è il dolore, la seconda freccia non viene scoccata dalla vita ma da noi stessi. La seconda freccia è la nostra reazione al dolore”

 3. Questo termine ha origine nelle scienze metallurgiche e descrive  la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate.  Per la materia vivente é la capacità di autoripararsi dopo un danno o una perturbazione   subita. In psicologia é la capacità di un individuo, nonostante un trauma subito, di riorganizzare la propria vita senza farsi sopraffare dalla sofferenza. Una metafora atta a descriverla potrebbe essere che, in un bosco che ha subito un incendio,  vediamo tra le foglie bruciate una pianticella verde e nuova che caparbiamente spunta fuori dal terreno: ecco quella pianticella é la resilienza.

 4. È il pensiero che la nostra vera natura é intrinsecamente sana, laddove la ripuliamo di tutte le scorie dei condizionamenti, dell’attaccamento e dell’avversione che inducono in noi sofferenza fisica ed emotiva.

 

Dott.ssa Giovanna Berengo

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